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Thursday, May 01, 2014

Aladdin in Italian- two stories!

Two of my short stories- which so dear to mine, The Voice and The Season of Migration to Arkidea, were published in Italian, translated by my dear friend and translator Barbara Benini on two places, Editoriaraba- a lovely blog which is dedicated to Arabic Literature, and Yallaitalia, a famous italian wen site. I do thank blog MedShake on the ISPI website, an Italian prestigious research institute on international politics, and Islametro, a famous italian web platform, for re- blogging both stories in less than 24 hours.
I do thank the Italian readers for their warm reception.
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La Voce
di Muhammad Aladdin
Traduzione dall’arabo di Barbara Benini

Come tutti i profeti, e gran parte dei pazzi, iniziò a sentire una voce, dal tono sicuro, che gli parlava. Quando le profezie raggiunsero un certo grado di affidabilità, la voce era ormai diventata parte della sua routine, un’abitudine. Della follia crescente, invece, non fece mai parola con nessuno.
All’inizio si preoccupò, pensando di meritarsi un posto in una buona struttura psichiatrica e per un po’ fu assillato da quest’idea, ma poi, confortato e rassicurato dai ricordi, si convinse che chi più, chi meno, abbiamo tutti bisogno di un posto in una qualche struttura psichiatrica.
La mattina, si abituò a non rispondere al saluto della Voce per evitare di incappare negli occhi sospettosi della moglie che, un giorno, con noncuranza, gli aveva detto che non c’era nulla di strano se uno parlava da solo e applicò la stessa regola con i colleghi e gli amici con cui si sedeva al caffè.
Provò a prendersela comoda mentre se ne stava chiuso in bagno e si mise a discutere con la Voce della filosofia di vita che gli esponeva, che a dire il vero meritava di essere presa in considerazione. Tuttavia, quando si rese conto che uno dei suoi figli avrebbe potuto udire la conversazione – che deve essere per forza durata molto, dopo quel lungo silenzio – con uno sforzo sovrumano cercò di non risponderle.
La Voce suonava così familiare, così calma e virile; fu sul punto di credere che si trattasse di suo padre, sebbene di carattere non fosse mai stato un tipo particolarmente calmo. Cercò di concentrarsi sulle frasi insolitamente lunghe. Spesso la Voce diceva cose che avevano un che di familiare: in ogni suo racconto o memoria del passato, poteva ritrovare se stesso o la sorella, che suo padre aveva così tanto amato; o lo zio, che si logorò assieme al fratello in dispute senza senso; o sua madre e la complicata vita matrimoniale dei suoi genitori. Tra loro, come per ogni coppia sposata, era impossibile capire bene dove finisse l’odio e dove invece iniziasse l’amore. Tuttavia, non ci fu nulla da fare: come unico risultato della profonda concentrazione, ottenne di versarsi addosso il tè bollente, finendo così per suscitare qualche sorriso malizioso tra i colleghi, che avevano notato la macchia umida sulla patta.
La Voce parlava di cose che, se pur semplici, gli parevano essere le più importanti.
La storia delle biciclette, per esempio: questi cerchi che vanno in giro uno dietro l’altro, il chiacchiericcio dei perni con i cerchioni, le loro ombre, che il più delle volte seguono la ruota, la catena che avvolge la corona, mossa dai pedali. E come l’essere umano sia più evoluto del leone, dato che il re della giungla non conosce le biciclette. Ci fu pure una viva discussione in proposito che, come era ovvio che fosse, fu a caro prezzo: il suo capo andò su tutte le furie, quando lesse nel suo ultimo rapporto che uno dei dipendenti era “un pedale” e lo rimproverò per l’eccessiva rudezza con cui aveva trattato, in un documento ufficiale, un collega.
Comunque la Voce non parlò mai di una relazione familiare né mai vi accennò, ma lui continuò a chiedersi se si trattasse del padre, che finalmente aveva trovato un po’ di tranquillità. Si disse che questa Voce sembrava molto più scaltra e provò un certo imbarazzo ad ammettere che il genitore, solo dopo la morte, aveva trovato pace e saggezza.
E così visse più sollevato, se pur immerso nei debiti contratti per comprare a rate una nuova automobile, cosa di cui il figlio maggiore fu, almeno inizialmente, e per motivi che possiamo comprendere, molto felice. Almeno fino a quando non capì che suo padre non passava un minuto del tempo libero al di fuori della nuova auto. Si accollava volentieri l’onere che comporta possedere una macchina in un quartiere piccolo borghese. Prese a occuparsi di tutte le commissioni di parenti e amici, pagava le rate e il carburante, pur di essere lasciato ogni giorno solo, in compagnia della Voce, sicuro che a quel modo non avrebbe mai più scritto “pedale” in un documento ufficiale, né si sarebbe versato altro tè bollente sulla patta dei pantaloni.
A dirla tutta, la moglie iniziò a guardare con sospetto a queste lunghe e frequenti assenze e così si mise a frugargli nelle tasche, a controllargli le chiamate e i messaggi del cellulare ma, sebbene qua e là avesse scovato il nome di qualche donna, non trovò mai niente di sostanziale e come era naturale che fosse, cominciò a vagliare altre possibilità. Forse si era messo a fumare hashish. La stessa cosa che doveva aver pensato il poliziotto che si era trovato davanti un cinquantenne, che gesticolava e parlava da solo, seduto al volante della sua macchina, parcheggiata in una via laterale. Quando gli aveva chiesto di favorire i documenti, aveva capito che l’uomo era del tutto sobrio ed era rimasto veramente di stucco, ma aveva dovuto lasciarlo andare, senza fargli niente.
Alla fine la moglie, stanca di fingere, l’aveva affrontato di petto: “Si può sapere che diavolo fai, quando sparisci con la macchina?”
L’uomo, come ogni impiegato di basso livello e con una certa anzianità di servizio, trovò difficile rispondere a una domanda formulata in un modo così diretto. “Me ne sto là fuori, seduto a pensare!”
Naturalmente questa sua risposta divenne una sorta di sfottò, che lo perseguitò per il resto della vita: usato dal figlio maggiore, sicuramente per vendetta; narrato con divertimento dalla moglie ai suoi amici e pure lui se lo ripeteva tra sé, per riderci su. Tuttavia non permise mai a questa storia di avere la meglio, durante le lunghe conversazioni con la Voce, Voce che, ormai, aveva preso il controllo su di lui, fungendo da lente d’ingrandimento sulla vita e offrendogli una chiara e comprensibile prospettiva. Ad esempio Magdy, il suo collega, morto in una maniera così assurda. Gli venne addosso un furgone, mentre stava attraversando la superstrada, per andare al lavoro e non si fece nulla: qualche graffio e pochi lividi. Ebbene, mentre stava sorseggiando il succo di canna da zucchero, che si era concesso per ringraziare Dio di quanto era stato compassionevole e misericordioso con lui, si concentrò così a fondo su questo pensiero da non prestare attenzione a come il succo gli scendeva in gola, così si soffocò e morì. La Voce gli disse che il modo in cui era morto, riassumeva l’essenza di Magdy: era stato un uomo così semplice che non c’era voluto un pesante furgone per ucciderlo. E così aveva capito chi fosse veramente Magdy, solo dopo la sua morte.
Dunque, quando la Voce decise, un giorno, improvvisamente, di sparire, ne fu visibilmente turbato.
In principio ridusse la durata dei suoi interventi poi, per un giorno intero, non si fece sentire. Si faceva viva di tanto in tanto, il tono gradualmente si smorzava, i silenzi, tra una frase e l’altra, si allungavano, finché improvvisamente si interruppe, lasciando una frase a metà, mentre lui se ne stava seduto sul terrazzo ad ascoltarla, circondato da dei parenti che erano venuti a trovarlo. Cercò di mascherare l’ansia, ma si ritrovò a sbraitare contro la moglie, perché non gli aveva messo lo zucchero nel tè. Gli ospiti non compresero e così sua moglie, che non trovò mai una ragione a quel lento declino e non capiva perché si chiudesse sempre nel suo studio, appena tornava dall’ufficio. Sua moglie non seppe mai perché lasciò il lavoro per starsene sdraiato sul letto, come un macigno, senza aprir bocca, senza rispondere al tocco della sua mano (ma ne fu felice il figlio maggiore, che poté prendere la macchina ogni sera).
Quando la moglie trovò le pillole di sonnifero, non riuscì a spiegarsi perché mai suo marito le usasse, semplicemente perché non sapeva di una voce, che un tempo gli era stata amica e poi si era placidamente dileguata, per tornare, vibrante, nel sonno. E infatti l’uomo doveva andarla a cercare ogni notte, provando ad allungare quei momenti, solo per tornare a rivedere il mondo come lo vedeva con la Voce. Iniziò ad alzarsi dal letto solo per vagare, intontito, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, per mantenersi in vita o per liberarsi l’intestino e poter ritornare al suo prolungato viaggio.

Poi venne il giorno in cui il sonnifero lo cullò in un sonno ancora più lungo, smise di bere e mangiare e cominciò a fare i bisogni nel letto. Ciò che sconvolse sua moglie non furono le feci e l’urina che sporcavano il corpo del marito, ormai magro come uno stecchino, né la barba incolta o i piedi screpolati. Ciò che maggiormente la sconvolse fu quel sorriso felice, un ampio sorriso, sinceramente felice, che aleggiava sul volto del suo cadavere.




you can see the original, along with an interview, here
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La stagione della migrazione ad Arkadia
di Muhammad Aladdin

Traduzione dall’arabo di Barbara Benini
Fu amore a prima vista.
Non troveremmo migliore descrizione del momento in cui Mastro Hamza vide la giacca di pelle marrone scuro – che alcuni, talora, definiscono “bruciato” – che fasciava alla perfezione il corpo del cliente entrato per caso, per fortuna o malasorte, all’interno della sua piccola officina meccanica sul Nilo.
Alcune persone intendono “l’amore a prima vista” come “la chimica” tra due esseri viventi o come pura attrazione sessuale.
L’idea di una reazione chimica tra un uomo e una giacca può anche passare – specialmente se si pensa, per esempio, all’ossessione che un uomo può avere per il suo accendino e all’importante teoria della proiezione in psicologia – tuttavia, l’idea di un uomo che scopa una giacca è, in un qualche modo, bizzarra.
Contemporaneamente, Luza, l’apprendista di Hamza, stava provando lo stesso genere di spontaneo, burrascoso, “naturale” amore per la compagna del proprietario della giacca: la bellissima donna dai seni prosperosi accoccolati in una maglietta di cotone che, in quanto ad aderenza e costo, poteva competere con la giacca incollata al torace del suo amico, mentre il fondoschiena finemente arrotondato, era avvolto in costosissimi jeans attillati, avversari di tutto rispetto su entrambi i piani.
La maggior parte delle persone lo riterrebbero un paragone azzardato, ma per l’incantato Mastro Hamza calzava a pennello: il suo apprendista Luza era profondamente innamorato, come chiunque altro, di quella splendida bellezza dal seno abbondante, arrivata dal lontano – seppur limitrofo – mondo aldilà del ponte, mentre lui era follemente innamorato della giacca.
Ognuno aveva i suoi motivi, che comunque erano sensati per entrambi: se Luza era stato attratto dalla grazia fisica della ragazza, Hamza era stato vittima della pelle morbida, delle tasche a forma di cuore sul petto – che gli ricordavano quelle dei jeans Lee, una marca popolare tra quelli della sua generazione – della cerniera con il tiretto non troppo piccolo né troppo grande, ben fatto e timidamente lucente, del tessuto stretch che avvolgeva i polsi e il girovita del cliente, della robusta fodera, involontariamente orgogliosa, che teneva insieme ogni parte della giacca, per non parlare della cinghia in pelle, con gli automatici, che girava attorno al colletto appuntito.
Ognuno dei due maschi incantati aveva le proprie ragioni di natura fisica per essere profondamente innamorato, ma c’era un altro importante elemento, che chiameremo simbolicamente “grazia”, nel tentativo di accorciare la distanza concreta da un mero “valore” di natura economica. La bella, infatti, emetteva grazia da tutti i pori, con i suoi costosi occhiali da sole, da cui spuntavano due occhi color miele, truccati alla perfezione e la chioma biondo oro, le cui ciocche ondeggianti le cascavano sulle spalle, solo che la giacca, agli occhi incantati di Hamza, emetteva lo stesso valore.
Per essere onesti, Mastro Hamza provò a mettere freno a questa ossessione concentrandosi sulla riparazione della delicata automobile tedesca del cliente, che si era fermata, inerte, vicino alla sua piccola officina, tuttavia in quei momenti, ben noti a tutti gli amanti, Hamza aveva occhi solo per la sua nuova amata. Di nuovo cercò di annientare quell’ ossessione dopo che il cliente se ne fu andato, cliente che, peraltro, si era dimostrato un grande avaro al momento di pagare, malfidente verso chiunque voglia mettere le mani in tasca ai ricchi.
In ogni caso, come tutti i clienti di Hamza, non era riuscito a evitare il sovrapprezzo del servizio, ma si era sentito felice e orgoglioso di se stesso, che a quanto pare è ciò che conta di più.
Mastro Hamza cercò di dimenticare il suo amore perduto, ma mentre i vicini parlavano della bella ragazza sexy, domandò in giro con insistenza, dove trovare la giacca del suo amico, tentando di non pensare a quando l’aveva chiesto al cliente e allo sguardo di compassione che gli aveva lanciato senza rispondergli. Hamza se l’era presa con se stesso, per essersi fatto intimidire – come tutti gli appartenenti alla classe operaia, quando si rivolgono a un membro dell’elite – ed essere rimasto in silenzio con il sorriso vago del cliente che gli pesava addosso come un macigno. Le cose non cambiarono finché un amico, solito a sedersi con lui in un piccolo caffè dietro l’angolo, lo vide triste e malinconico. L’amico, un po’ più giovane di lui, non era figlio di un meccanico e non aveva avuto la fortuna di ereditare l’officina di famiglia.
Lavorava come guida turistica abusiva e gigolò, con gli stranieri che gironzolavano per il centro città lì vicino, abituato com’era a quella giungla. La giovane guida stava passando per caso di lì quando la bella e il suo amico si erano fermati. Ovviamente la ragazza aveva catturato il suo sguardo, ma dato che la sua professione si basava sulle apparenze, anche la giacca aveva avuto un suo ruolo nell’attirarne l’attenzione. Disse ad Hamza che un tal genere di giacca si poteva trovare in posti come il City Stars, o da Beymen all’hotel Four Seasons, nel Centro Commerciale Arkadia o in negozi più piccoli sulla via El Gezira nell’isola lì vicino.
Poi arrivò la questione più importante: il prezzo. La giovane guida turistica rispose alla domanda di Hamza con il tono di un Angelo della Morte: una giacca come quella non sarebbe costata meno di cinquemila sterline egiziane, o anche di più. Mastro Hamza non era in uno stato di reale indigenza – e per questo era solito ringraziare Dio – ma era da sempre ossessionato dall’idea di modernizzare la “bella del vicinato”, la vecchia Vespa avuta in eredità da suo padre, una 200cc, una vera bell’italiana che, però, aveva bisogno di riparazioni e di una revisione, almeno secondo lui.
Sua moglie Naìma non era d’accordo, per lei l’intera questione – che poteva costare al budget familiare una cifra ben superiore alle migliaia di cui sopra – era una stronzata: era una “finta bella”, come aveva urlato una volta in presenza di sua madre, non abbastanza saggia da tenere per sé questo giudizio severo, o forse volendo di proposito litigare davanti a lei.
Naìma pensava che il vero oggetto delle loro cure dovesse essere il loro neonato figlio Mahmoud, venuto alla luce tre mesi prima per diventare compagno di giochi di Khadigia – che portava il nome della nonna materna – che da cinque anni giocava da sola. Hamza, però, aveva capito che la solitudine di sua figlia non c’entrava proprio niente e che al contrario si trattava di un altro colpo inferto alla sua indipendenza, un’assicurazione per l’insicura Naìma, consapevole che il loro matrimonio era solo frutto dell’eccitazione delle loro sveltine consumate sulla terrazza del suo palazzo, il tipo di eccitazione destinato a svanire con l’abitudine.
Quando saltò fuori un maschio, bastò a placare l’inconfessata ostilità di Hamza verso l’intera questione, leggermente sollevato dall’orribile sensazione di essere stato imprigionato per sempre.

E così fu che Hamza si innamorò perdutamente e, come in tutte le grandi storie d’amore, c’erano ragioni logiche da renderlo difficile, o addirittura proibito
. Di nuovo tentò di non lasciarsi sopraffare dalla questione, cercò di concentrarsi sulla routine quotidiana, lasciando a una parte di se stesso la seguente consolazione e cioè, che una volta cresciuto il bambino, quando Naìma si fosse dimenticata della Vespa e quando avrebbe risparmiato una somma così grande da non averne bisogno, si sarebbe comprato la sua cara amata giacca.

Come in ogni grande storia d’amore, vi fu un’altra coincidenza che assomigliava alla prima: il fato guidò Hamza al Centro Commerciale Arkadia,
 che non era troppo lontano dalla sua piccola officina, per riparare la macchina di un dirigente. Il pasha, come lo chiamavano tutti, si stava stancando dell’“arroganza” del suo solito meccanico, che viveva nel misero quartiere alle spalle del lussuoso centro commerciale e quando questi gli disse che aveva da fare e non si sarebbe liberato prima di due ore, seguì il consiglio di un suo collega e ne cercò un altro per riparare la sua macchina guasta, parcheggiata nel garage dell’Arkadia.
Il collega del pasha chiamò un amico che a sua volta gli raccomandò Hamza – bisogna ammettere che Hamza ha la reputazione di essere un bravo meccanico – e si prese la briga di portarlo al centro commerciale.
Quando Hamza prese con sé la sua borsa degli attrezzi e, assieme al suo apprendista, arrivò sulla Corniche, un inspiegabile malessere si impossessò di lui. Si disse che doveva essere una specie di chiaroveggente quando, un’ora più tardi, si trovò in uno strano ascensore, che a lui sembrava una capsula antibiotica trasparente, per andare a prendere soldi dal pasha all’ultimo piano. Pasha che non amava pagare il dovuto a nessuno, ma dobbiamo ammettere, per essere onesti e aldilà delle nostre solite critiche nei confronti delle intenzioni dei personaggi, che il pasha voleva veramente invitare Hamza a bere un caffè o una bevanda ghiacciata, solo che, con suo grande stupore, Hamza si aggrappò al suo rifiuto con un no che significava no, non quello finto che gli uomini usano qualche volta con le donne e i ricchi con i poveri.
Mastro Hamza insisteva così tanto nel voler lasciare l’ufficio, aveva così tanta fretta (sebbene questo non gli impedì di contare il denaro con attenzione), da sopprimere anche la leggera obiezione del suo apprendista, il cui no in realtà era un sì: sì a una bevanda ghiacciata o a una delle donne che passavano per l’ufficio – clienti o impiegate che fossero – con le loro gonne relativamente corte che ne svelavano le grazie.
Ancora una volta Mastro Hamza e il suo apprendista furono d’accordo sull’adorare la grazia, solo che l’ammirazione del ragazzo lo spingeva a rimanere, mentre quella di Hamza ad andare via. Tuttavia accadde, mentre si trovava nella capsula antibiotica trasparente, che vide l’amore dei suoi giorni nella vetrina di un negozio di lusso del secondo livello.
Dobbiamo ammettere che le coincidenze hanno giocato un ruolo importante in questa storia, come il fatto che se l’ascensore di servizio non fosse stato guasto, Hamza non avrebbe mai avuto alcuna occasione di essere nel centro commerciale con addosso la tuta da lavoro sporca, la stessa che gli fece guadagnare l’occhiata dall’alto in basso del commesso che, dimenticando il proprio ruolo, rispose con fermezza, proprio come fosse il proprietario, alla domanda ansiosa di Hamza: settemila sterline egiziane.
All’interno del negozio, però, accadde che il commesso ebbe la tendenza a riconsiderare il proprio status e così passò da un atteggiamento snob, all’essere geloso del mestiere estremamente remunerativo di Mastro Hamza, come la leggenda metropolitana, di solito a ragione, lo descrive, così rispose alla domanda sulla marca della giacca, pronunciando un nome che Hamza non riuscì proprio a ripetere, ma gli sembrava “Romani”, come il cognome di un suo vecchio amico.
La giovane guida turistica si sbellicò dalle risate quando Hamza gli disse che era una giacca di Romani da settemila sterline. Gli ripeté la corretta pronuncia della marca, ma stranamente Hamza non fece molta attenzione al vero nome della sua amata. Lo pronunciò correttamente una paio di volte e poi tornò a quello che preferiva, il primo: Romani. Potremmo anche aggiungere qui che Hamza non fu per niente soddisfatto della giovane guida turistica, perché il ragazzo gli rideva in faccia anche se Hamza era più vecchio di lui di alcuni anni e guadagnava molti più soldi, ma soprattutto – e questa era la cosa più importante – i suoi guadagni erano frutto del sudore, non dello sfruttamento di vecchie turiste straniere, cui, si diceva, facesse da “accompagnatore”.
Tale risentimento si deve essere mostrato con un gesto di stizza, o un tono severo, oppure questo ragazzo ha un cuore buono – o le tre cose insieme – fatto sta che la giovane guida turistica si offrì di accompagnare Hamza al grande mercato di abiti usati, lì dietro l’angolo, dove avrebbero potuto trovare una giacca simile, anche se vagamente, alla perduta Romani. Conosceva Ashraf, Hamdy e Abdallah, amici e vicini dei commercianti del mercato, forse avrebbero potuto trovargli quello che voleva. Ci sarebbe andato con Ahmed Abdulraùf per aiutarlo a comprare smaglianti abiti di gusto europeo, perché doveva portarlo a una festa a casa di una delle sue “amiche” straniere, nel quartiere di Maadi, il venerdì successivo.
Ovviamente quest’idea frullò nella testa di Hamza per un bel po’, mentre si rigirava nel letto di fianco a sua moglie, che come al solito russava, tuttavia una speranza infantile – lo stesso spirito che lo spingeva ad aspettare le nuove collezioni, per il Piccolo Bairam, al termine del Ramadan – gli dette la forza di resistere: voleva una giacca nuova, nuova esattamente come la giacca del cliente con la bellissima ragazza e la lussuosa macchina tedesca. La voleva così tanto che pensò seriamente di mettersi a dieta, per eliminare quella pancetta che aveva messo su da quando si era sposato. Voleva a tutti i costi assomigliare al cliente, con il suo torace sportivo cui la giacca aderiva alla perfezione, altrimenti avrebbe insaccato la pancia, come faceva suo suocero quando indossava il vestito estivo di taglio maoista.
Talora alcuni pensieri lo distraevano da questo suo chiodo fisso: che senso aveva mettersi una giacca così aggraziata nel suo quartiere povero? C’era forse un posto di lusso dove poterla indossare? Poi però si rammentava dell’esempio del Signor Taìma, il dandy del quartiere, che era solito vestirsi veramente elegante anche quando si sedeva al loro misero caffè dietro l’angolo, ma andò anche oltre, decise di comprarsi una maglietta e un paio di jeans costosi come quelli del cliente, e anche degli scarponi con il rinforzo di sicurezza sulla punta, esattamente come i Redwing, che gli piacevano tanto quando era un adolescente. Così il suo lato infantile costruì un’alta barriera davanti all’idea di una giacca di seconda mano.
Quando la giovane guida turistica abusiva glielo propose di nuovo, aggiungendo quanto costava la giacca, il rifiuto infantile di Hamza si sgretolò un poco, per lasciare spazio a una voce, dal tono apparentemente serio, che rifletteva sulla differenza tra una giacca leggermente usata (quasi nuova, come diceva lei) e una nuova, più costosa del dovuto. La voce grave continuò dicendogli che sarebbe stato veramente furbo se fosse riuscito a trovare una giacca di seconda mano che assomigliasse all’amore perduto e per giunta costasse molto meno.
Questo gli girava in testa mentre aspirava profondamente dalla sua shisha, ascoltando la giovane guida turistica abusiva, seduta vicino all’entrata della sua officina.
Rapidamente Mastro Hamza appoggiò il bocchino della shisha sulla sedia, lasciò il negozio a Luza e uscì con la guida, che chiamò Ahmed, per incontrarsi dietro l’angolo e dare un’occhiata ai banchi del mercato. Andarono da tre commercianti diversi e Hamza era esausto a forza di descrivergli cosa voleva, mentre i due giovani cercavano di aiutarlo e contemporaneamente sceglievano una camicia blu di una marca famosa e una paio di jeans scoloriti per Ahmed. Ognuno dei tre commercianti ascoltò e, se pur invano, cercò in tutti i modi di essere d’aiuto. Mentre stavano vicino al negozio di Ashraf, videro due donne straniere, una matura e una che sembrava sulla ventina: due pesci fuor d’acqua, anche se entrambe davano l’idea di sapere perfettamente come si comportano gli uomini egiziani tra la folla. La giovane guida turistica lanciò ad Hamza uno sguardo di vittoria: anche gli stranieri con le loro valute preziose venivano a comprare nei mercati di abiti usati. Ahmed, invece, stava guardando la ragazza straniera: fantasie volteggiavano nella sua mente al pensiero della festa prevista.
Ma Mastro Hamza non trovò ciò che desiderava e mentre con frustrazione esaminava la merce che i venditori gli mostravano, la voce infantile tornò a farsi sentire, assicurandolo che nessuna di quelle giacche era alla stregua della sua amata Romani. Hamza infatti non era di certo rapito come lo era stato davanti alla vetrina del negozio dell’Arkadia quando, inchiodato al pavimento, assieme a Luza, aveva ispezionato ogni centimetro della giacca, ricordando come vestiva il corpo del cliente. Aveva osservato la lucentezza della sua fine e morbida pelle costosa, mentre Luza, che lo tirava per andare via, imbarazzato dagli sguardi della folla, si era sorpreso quando Mastro Hamza, al contrario, lo aveva spinto dentro il negozio, secondo lui con una mossa coraggiosa, per chiedere al commesso informazioni sulla giacca.
Mentre Hamza sprofondava nella delusione, un canto lontano lo raggiunse e così, come altri attorno a lui, lasciò quel che aveva in mano per osservare il gruppo di persone, principalmente giovani che, provenendo dalla lunga strada, urlavano slogan contro il presidente e il regime. Molti uomini gli gironzolavano attorno – e Hamza sapeva bene che alcuni erano poliziotti in borghese – con la scusa di registrare, con i loro cellulari, la marcia e le sue insolite invettive. Hamza insieme ad altri come lui, stava osservando attentamente questo corteo, che aveva ormai attirato tutto il vicinato. Abdallah sorrise guardando i manifestanti, poi si girò verso Hamza. Ahmed e la giovane guida turistica maledirono sia il presidente che la folla che cantava: un abile ladro e una manica di imbecilli. Il giovane disse loro che un gruppo di residenti del centro città e molti altri giovani avevano protestato il giorno prima nell’enorme piazza lì vicino, per poi essere inseguiti dalla polizia fino ai quartieri a sud.
Cercarono di ignorare ciò che stava succedendo, ma il canto aumentava sempre di più, mentre il gruppo si muoveva attraverso il mercato, gridando i propri slogan, finché due veicoli blindati della Sicurezza Centrale spuntarono da non si sa dove e si piazzarono davanti al Ministero degli Affari Esteri. Quello fu il momento in cui i lacrimogeni, una strana novità per Hamza e la maggior parte del vicinato, cominciarono a piovere su di loro, mentre il gruppo di giovani si era chinato sul marciapiede mezzo dissestato per spaccarlo in piccoli pezzi da lanciare contro i soldati. Molti nel quartiere, tra cui loro tre, si ritirarono nei vicoli limitrofi, dato che i lacrimogeni non erano riusciti a scacciare la loro curiosità, ma quando ci fu il blackout e le forze di sicurezza inseguirono i giovani negli stessi vicoletti bui, per Hamza e i suoi amici fu tempo di tornare a casa, di allontanarsi da quelle diavolerie dei poliziotti e dalla stupidità dei manifestanti.
La mattina dopo, mentre era concentrato a riparare la macchina di lusso di un altro cliente, Hamza realizzò che si stava tenendo un’altra protesta vicino all’albergo a cinque stelle non lontano da lì. Sembrava che la gente si stesse dividendo in gruppi riguardo all’invito a partecipare alle imponenti manifestazioni previste dopo la preghiera del venerdì successivo: alcuni erano molto eccitati, altri inveivano contro tutto e altri ancora erano indifferenti, come Hamza.
Tutti però concordavano su un fatto: avevano forti dubbi sull’utilità di ciò che stava accadendo e addirittura non erano certi che sarebbe successo. Quando Hamza, quella sera, si sedette al caffè, giravano voci sull’arresto di alcuni ragazzi del quartiere, durante le manifestazioni dei giorni precedenti; si diceva persino che tra loro fosse finito anche chi non aveva nulla a che fare con le proteste, si era solo trovato da quelle parti, al momento degli scontri.
Si conosceva il luogo in cui erano stati portati alcuni di loro, ma altri sembravano spariti nel nulla. Hamza stava ascoltando tutto mentre rifletteva su quanto chiedere al nuovo cliente snob, soppesando l’idea di avvicinare la tariffa al prezzo della sua amata Romani. La giovane guida andò da lui a tarda notte con una bottiglia di whiskey irlandese che aveva avuto da una “cliente”, mentre Hamza preparò due canne di hashish – che in quei giorni era difficile da trovare – una ciascuno. Il ragazzo aveva accompagnato Ahmed da un barbiere che conosceva, lì vicino e gli aveva fatto tagliare i capelli in modo che il suo look facesse buona impressione sugli europei con cui avevano appuntamento il giorno dopo.
Il giovane, esitando, disse ad Hamza che la mattina successiva avrebbe partecipato alla manifestazione che si teneva dopo la preghiera di mezzogiorno, mentre la sera, con Ahmed, sarebbe andato alla festa degli stranieri. Dalle narici di Hamza esplose quel tipico grugnito di disapprovazione mista a incredulità seguito a ruota da una domanda: da quando aveva preso a frequentare la moschea? E con che coraggio poteva presentarsi alla preghiera del venerdì, dopo aver passato la notte a bere e fumare? Hamza gli ricordò che per quaranta giorni la sua bocca sarebbe stata impura. La giovane guida turistica abusiva disse che quella regola era un’invenzione e non aveva nulla a che fare con l’islam. Mastro Hamza lo fece tacere con un altro grugnito, seguito da un “vaffanculo!” e da un’altra domanda: com’è che improvvisamente era diventato un manifestante e un uomo pio, contemporaneamente? La combinazione di grugnito, “vaffanculo!” e ulteriore domanda in meno di dieci secondi, bastò a porre fine alla conversazione.
Quando Hamza lasciò il giovane per ritirarsi di sopra, dove montò la moglie per un lasso di tempo che sembrò ore, non stava pensando alla giacca, o alle proteste, o a quando le preghiere possano considerarsi valide. Era eccitato dal viso di una famosa presentatrice di talk show che assomigliava all’attrice sexy Soad Hosny e che lui stava cercando, invano, di fondere con quello di sua moglie. Nel mentre, la sua consorte si stava chiedendo se quel genere di sesso, tra i fumi dell’hashish e dell’alcol, avrebbe mai portato un terzo bambino e se fosse il caso, o meno, di comprare un nuovo passeggino.
Quando Hamza si svegliò, nel tardo pomeriggio del venerdì, tossendo per via dei lacrimogeni che avevano impestato l’aria della sua stanza, sembrava il Giorno del Giudizio. Sua moglie gli stava dicendo che le proteste erano partite da quasi tutte le grandi moschee della città vecchia e che i giovani arrabbiati erano piombati nelle vie laterali, maledicendo il presidente e invocando la caduta del regime e che la stazione di polizia lì vicino era stata attaccata, come era successo a molte altre in città. Stavano tutti soffocando per i gas che piombavano giù da ogni dove, il caos regnava nelle strade da quando i giovani avevano iniziato ad attaccare il ministero.
Il personale di polizia e i loro informatori, assieme ai bulli che usavano durante le elezioni, tutti quanti erano improvvisamente svaniti nel nulla. Quando Hamza scese in strada per vedere cosa stesse succedendo, notò due giovani che con indifferenza si stavano rollando una canna d’erba, poi vide il Signor Taìma, che cercava di conservare un aspetto pulito nonostante le circostanze e gli domandò della giovane guida turistica abusiva. Taìma non ne sapeva nulla e lo stesso risposero tutti quelli cui chiese informazioni sul ragazzo. Si domandò se il giovane fosse veramente andato alla manifestazione, o non si fosse invece addormentato come lui, aspettando, assieme ad Ahmed, la festa delle ragazze straniere. Cercò di telefonargli, ma con sua grande sorpresa scoprì che la linea telefonica dei cellulari non era attiva.
L’agghiacciante eco degli spari della piazza non lontana, confuso con il suono sommesso dei lacrimogeni, li raggiunse. Tutto sembrava crollare e fondersi, così, all’improvviso e sempre all’improvviso vide apparire il suo apprendista Luza, trasportato da alcune persone, tra cui riconobbe Abdallah, il proprietario del negozio di abbigliamento nel mercato. Il corpo di Luza era ricoperto di sangue.
Dalla gente che si trovava all’ospedale veterinario lì vicino, dove alcuni medici avevano trasportato i feriti per generosità e senza fare alcun rapporto alle autorità, Hamza seppe che Luza aveva protestato con una folla di giovani davanti alla vicina stazione di polizia e si era preso la sua dose di proiettili. Sua madre Hamìda, che nonostante l’età, era ancora una bella donna e di solito faceva impazzire il padre di Luza, stava urlando a destra e a manca, vicino all’ingresso dell’ospedale, maledicendo suo figlio e i manifestanti, domandandosi se ciò che stavano facendo avrebbe sistemato le cose, o se per caso Luza avesse un padre primo ministro che lo avrebbe salvato dalle conseguenze delle sue azioni.
Anche Hamza stava per imprecare contro Luza ma, quando si avvicinò al corpo, disteso su una lettiga vicino all’entrata, alla vista del volto giallognolo e consumato dal dolore, del sudore che lo ricopriva e delle bende imbevute di sangue su braccia e gambe, si zittì e diede una leggera pacca di conforto al suo apprendista, che lo ricambiò con uno sguardo di gratitudine. Alla fine, però, Hamza lo maledì comunque, a dispetto delle circostanze.
Mastro Hamza sentì molte voci dai ragazzi del vicinato, che giunsero feriti, o in quanto familiari dei feriti, o semplicemente curiosi, ma una sola notizia attirò la sua attenzione anche più dell’esercito che si stava muovendo verso il palazzo della televisione di stato e il ministero lì vicino: gruppi di persone stavano attaccando il Centro Commerciale Arkadia. Alcuni vicini stavano già partendo come missili, sulle loro motociclette cinesi da due soldi o sulle loro costose Vespe, come la sua, diretti all’elegante edificio sul Nilo.
L’immagine della bella, la giacca Romani, tornò di nuovo a occupare la mente di Hamza, quella sottile e fine pelle bruna o “marron bruciato”, le tasche a cuore, la cinghia con gli automatici attorno al colletto appuntito. La bella lo aspettava nell’edificio lì vicino.
Non è difficile immaginare cosa accadde dopo: Hamza corse alla sua Vespa, parcheggiata sul cavalletto, nell’ androne di casa sua, ci salì sopra e guidò fino a raggiungere un branco di motociclisti che scheggiavano verso il Centro Commerciale. Al branco non gliene fregava niente dei giovani ribelli attorno al palazzo della TV di stato e nella piazza lì vicino, o dei militari della Sicurezza Centrale che, spogliatisi delle divise cominciavano a sparpagliarsi nelle strade o a nascondersi negli androni dei palazzi. Ai motociclisti non gliene fregava niente dei blindati della Guardia Presidenziale, che stavano spuntando lungo la Corniche. Non gliene fregava proprio niente, esattamente come a tutti gli altri, del coprifuoco imposto dal vecchio regime corrotto. Il branco era sulla via per la Terra Promessa, non tanto lontana, dove c’erano latte e miele, apparecchi elettronici e molto altro ancora.
Hamza arrivò al centro commerciale trovandone gran parte in fiamme: il fumo pesante saliva nell’aria. Orde di persone uscivano trasportando tutto quello che potevano, pesante o leggero che fosse. Parcheggiò la Vespa all’entrata, assieme a molte altre motociclette e corse dentro l’Arkadia come preso in un incantesimo.
Con la punta delle dita sfiorò il coltello nella tasca dei jeans e la sua intuizione risultò essere corretta: tra le orde di formiche che sollevavano i propri trofei, c’erano molte risse, specialmente davanti alla gioielleria, in cui avevano fatto irruzione, come in molti altri negozi del centro commerciale. I corpi dei cercatori di diamanti erano impilati uno sull’altro, mentre i più forti e più violenti avevano preso tutto.
Hamza stava salendo le scale lungo la scia della folla, tra cui riconobbe alcuni visi, mentre altre persone stavano scendendo, trasportando tutto quello che potevano, persino sedie di pelle da ufficio e scrivanie. Raggiunse il negozio desiderato, anch’esso distrutto, estrasse il suo coltello con una leggiadria risalente ai lontani giorni dell’adolescenza e si mise a cercare l’amata. Con lo sguardo prese a rovistare in giro per il locale distrutto, mentre la gente intorno a lui afferrava vestiti con avidità e trovò l’ultima rimasta in un armadio alla sua destra. Ondeggiò il coltello in faccia a un giovane che stava per afferrarla e gli intimò di andarsene con tono rude e minaccioso. Il ragazzo tremando si dileguò, lasciandogli via libera e Hamzà afferrò la giacca. La osservò a lungo: finalmente aveva ottenuto la sua amata, finalmente la mano sinistra ghermiva con fermezza quella sottile pelle lucente, mentre il tiretto della cerniera oscillava libero. Il tintinnio luccicante del metallo colmò d’estasi il cuore di Hamza che non riuscì a trattenersi e nonostante il delirio che gli stava intorno e gli occhi che sicuramente aveva addosso, corse verso i camerini.
Si chiuse alle spalle l’elegante porta di legno e attento a non ferire l’imbottitura della giacca, tuffò la mano destra con il coltello all’interno del fine tessuto, facendo scivolare la manica nel minor tempo possibile. Fece lo stesso con l’altra, si sistemò addosso la giacca e chiudendo la cerniera, impettito, si guardò allo specchio alla sua sinistra. Un senso di frustrazione si impossessò di lui: era di una taglia troppo grande e così non aderiva perfettamente al suo torace, ma non si lasciò sconfiggere, alla fine era riuscito ad avere la giacca.
Con la medesima foga con cui era entrato nel negozio, uscì: una folla di persone lo circondava nello stesso stato di eccitazione. Era il paradiso, era fare giustizia su quegli egocentrici bastardi egoisti; su quei ladroni, con il loro denaro, frutto di ruberie, nei loro enormi conti in banca; sulle sventole tutte curve, dalla pelle bianca, che si scopavano; sui loro club esclusivi; sulle scuole internazionali dove mandavano i loro piccoli bastardi. I pasha, gli dei delle stazioni di polizia, che baciano il culo dei potenti, mentre appendono per le caviglie i ladruncoli, o chiunque la malasorte abbia guidato tra le loro mani. Quello era il giorno di coloro che stavano ai loro piedi: i piccoli delinquenti, i diseredati, quelli che sognavano lo stile di vita che gli veniva mostrato nei film che arrivavano dal lontano Nord. Estasi e brutalità scorrevano assieme tra la folla, un rapimento simile a quello che Hamza sentiva mentre si faceva Naìma sulla terrazza, attento che non arrivasse nessun indesiderato visitatore o qualche vicino dalle orecchie lunghe.
Corse fuori e l’adrenalina gli riempiva le vene. Richiamò alla mente l’immagine di un lupo, un lupo feroce che, nonostante i cani che da sempre lo assediavano, aveva ottenuto tutto ciò che voleva nella foresta della vita.
Quando uscì dalla porta del centro commerciale, scattando verso lo spiazzo in cui erano parcheggiate le motociclette, la nuda verità lo colpì brutalmente: la sua Vespa era andata.





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محمد علاء الدين في حكومة منتصف الليل






عن الملكية الفكرية.